È il soprannome di Pietro, uno dei bravissimi giovani attori che interpretano un mondo vecchio, marcio, inquinato che ha fallito ogni tentativo di riconversione ecologica.
Qualcosa si muove nel nostro cinema. Pare proprio che l’aria nuova che sta spazzando via vecchi schemi e consuetudini, costringendo politica, società, economia e immaginario a rinnovarsi, sia entrata persino nell’impermeabile sistema audiovisivo italiano. Certo, una rondine non fa primavera, ma i segnali che qualcosa di diverso a livello produttivo e, ancor meglio, narrativo, possa profilarsi all’orizzonte iniziano a vedersi. Temi inediti, generi poco esplorati, autori al debutto. È il caso di questo Mondocane, dell’esordiente Alessandro Celli, film prodotto da un altro giovane talento tricolore, Matteo Rovere, che aveva già iniziato a sparigliare le carte con operazioni coraggiose e aliene per il cinema italiano come Veloce come il vento e Il primo re, ovvero un film sulle corse e un kolossal epico, non proprio tra i generi più battuti dai suoi connazionali. Film che hanno raccolto un discreto successo, segno che i tempi per provare a fare qualcosa di nuovo sono maturi. E così Mondocane allarga la platea dei racconti possibile al filone post-apocalittico, ma senza la profusione di effetti speciali da film americano, ma “all’italiana”: colori arrugginiti sì (fotografia seppiata, giallognola, alla Mad Max), ambientazione in un incerto futuro pure, ma il resto è realismo, salvo poche trovate. Nella cornice di un avvenire distopico emerge l’ancoraggio al regionalismo (la Puglia), all’attualità (l’inquinamento) e alle giovani generazioni.
La grande evacuazione
Siamo a Taranto. Dopo la grande evacuazione. Come ci viene svelato nel corso del racconto, è l’avvenimento che ha segnato il primo e il dopo del capoluogo pugliese. I veleni sprigionati dalle acciaierie di Taranto hanno costretto buona parte della popolazione a trasferirsi nella parte “nuova”, bonificata. Ma c’è una parte della popolazione che si ostina ancora a vivere in prossimità della “vecchia”, la zona tossica, divenuta di fatto una città fantasma cinta dal filo spinato, rispettato anche dalla polizia. Al suo interno, dove nessuno osa entrare, i pochi abitanti conducono un’esistenza misera e violenta, cercando di sopravvivere come meglio possono. Oltre a loro, vi sono le Formiche, una gang criminale guidato dal carismatico Tescacalda (Alessandro Borghi), il loro capo. Le Formiche lottano per il dominio del territorio con un’altra banda rivale del posto. È in questo ambiente violento che vivono Pietro e Christian, due giovani orfani di 13 anni, cresciuti fianco a fianco, condividendo lo stesso sogno nel cassetto: entrare nella gang. Pietro, noto come Mondocane, riesce ad affrontare e superare con successo le prove per entrare nel gruppo, al contrario di Christian, che viene schernito e soprannominato Pisciasotto, a causa di frequenti crisi epilettiche. Dall’altra parte abbiamo una giovane coraggiosa poliziotta (Barbara Ronchi), determinata a sgominare la gang anche con l’aiuto di una giovanissima fuoriuscita (Ludovica Nasti).
Ecologia dei rapporti umani
Indubbiamente la questione ambientale è il perimetro tematico del film. Non ci vuole molta fantasia a collegare lo senario apocalittico del film con le controversie legate all’Ilva di Taranto. Lo scandalo delle polveri atmosferiche, dei veleni sui terreni, l’incidenza dei tumori, le falde acquifere contaminate, sono tutti fatti di cronaca. Mondocane parte dall’epilogo peggiore, dal fallimento di ogni politica di riconversione ecologica. Per raccontare altro. Ovvero dell’avvelenamento della civiltà che ne consegue. Il deterioramento del patto sociale ed educativo, il dilagare della violenza, il rantolare di vere prospettive di senso. Nel pervertimento delle relazioni bambini-adulti (ragazzini al soldo di gang capitanate da adulti con la testa di bambini) è possibile intravedere la fine della società umana: Mondocane, supportato da un ottimo cast (con plauso particolare ai giovanissimi attori), riesce a mostrare insieme il punto di caduta e quello di rinascita di un mondo “tossico”. La logica dello sfruttamento (dell’uomo sull’ambiente, dell’uomo sull’uomo) come anticamera dell’abisso; il ritorno alla luce come atto di fiducia nel prossimo, non come mezzo ma come fine. Da una parte la relazione di Testacalda e i suoi bambini-soldato, dall’altra quella tra la poliziotta e la bambina. La meccanica del padre-padrone contro il dono della maternità. Rinnegare l’una per scegliere l’altro è forse l’ultimo privilegio concesso ai protagonisti di Mondocane. L’ultimo spiraglio di libertà prima della catastrofe. Non facciamocelo scappare.
Gianluca Arnone