Ogni epoca ha il suo cinema. Il neorealismo italiano nel dopoguerra, la nouvelle vague francese negli anni ’60, la nuova Hollywood negli anni ’70, fino ad arrivare in anni più recenti al cinema messicano. Indubbiamente questo è il momento del cinema coreano. Che ha saputo conquistare il mercato più chiuso e difficile al mondo, quello americano. Così, dopo il clamoroso successo (coronato con l’Oscar) di Parasite di di Bong Joon-ho lo scorso anno, che ha aperto la strada a Hollywood per il cinema del suo Paese, questo è l’anno di Minari di Lee Isaac Chung, già vincitore del Golden Globe come miglior film e candidato a 6 premi Oscar: film, regia, attore protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura e colonna sonora.
Un affare di famiglia
Se Parasite era in tutto e per tutto un film “straniero”, Minari è invece meticcio, figlio di quel melting pot che ha fatto grande l’America. Madre, padre, bambini e nonna in Minari sono coreani, ma la vicenda si svolge in Arkansas, dove la famiglia si è trasferita per acquistare un campo dove coltivare prodotti coreani, lasciando un lavoro certo nella ricca California. La sicurezza per il rischio. D’altra parte sono tempi di pionieri quelli. Siamo negli anni ’80, nel pieno dell’ottimismo economico dell’era Reagan e del rilancio del sogno americano. Le cose però non filano liscio, l’acqua scarseggia, il raccolto langue, la famiglia si sostiene prestando servizio in un pollaio. Difficoltà che finiscono per acuire i contrasti tra moglie e marito, mentre i due figli – la maggiore Anne e il tenero David – sono i più svelti a integrarsi nella nuova situazione, anche quando la loro vita viene sconvolta nuovamente dall’arrivo dalla Corea della nonna Soonja, l’unica forse capace di far riscoprire alla sballottata famiglia il bello delle radici e l’importanza di sostenersi a vicenda.
La metafora della rigenerazione
Al di là della dichiarata matrice autobiografica – il regista è cresciuto Denver, suo padre era un sessatore di polli, proprio come nel film – Minari conferma la predilezione del cinema orientale per il tema della famiglia e delle sue vicissitudini. La famiglia è la pietra angolare di ogni comunità, la sua riserva aurea. Il film di Lee Isaac Chung sembra ampliare questo concetto alla comunità d’America, al sogno – il vero american dream? – di tenere insieme prospettive, sensibilità, culture diverse. Un sogno che è lì, a portata di tutti, come il minari del titolo, la pianta aromatica coreana dalle virtù benefiche che la nonna pianta sulla riva del fiume e che cresce rigogliosa, spontaneamente. Simbolo di una rigenerazione, di quell’innesto miracoloso, possibile laddove l’alterità non genera timore ma ricchezza. Come il Paese che lo ospita, anche il cinema statunitense si rinnova accogliendo nel proprio corpo uno sguardo straniero, senza pretendere di raccontare l’altro, ma facendo sì che sia l’altro a potersi raccontare.
L’acqua e il fuoco
Quante volte l’abbiamo già letta, vista, sentita questa storia? Eppure Minari riesce a farcela sentire come nuova, o meglio necessaria. Ci sono tante cose dentro questa storia. Persino un vicino che si carica addosso una croce come un novello Cristo, anche lui diverso, eppure caro. Nei campi coltiva insieme al pater familias coreano frutti di integrazione sociale che non annullino l’identità personale. E quella croce, così come la chiesetta dove la nuova famiglia viene prontamente accolta, ci ricorda che Minari è un film di fede, di ricerca, di rabdomanti in cerca dell’acqua che li salverà, battezzerà la nuova vita e irrigherà il futuro. Consapevoli che prima però bisogna passare dal fuoco purificatore, che dovrà fare necessariamente terra bruciata del vecchio perché il nuovo possa essere piantato e crescere. Ma non vi preoccupate troppo delle metafore. Minari è un film che va gustato col cuore (quello stesso, piccolo cuore che batte troppo forte, il cuore di David), un film che emoziona, che conforta e strattona, un film che ci riconcilia con il cinema e la vita. Dunque, un grande film.
Gianluca Arnone